Appoggiato
dall'ong Oxfam il governo di Addis Abeba lancia una campagna
globale contro il gigante Usa: "Sfrutta i contadini"
Starbucks
e l'Etiopia alla guerra del caff
In
uno qualunque degli oltre 10mila negozi Starbucks sparsi
nel mondo, portarsi al tavolo o sulla scrivania dell'ufficio
una tazza fumante di caff Sidamo costa circa 2,20
dollari. In tazza non ci sono che pochi grammi dei chicchi
neri che danno il nome alla bevanda: tanto che se fosse
venduto al chilo il prezioso Sidamo costerebbe all'avventore
la bellezza di 50 dollari. Eppure a chi quel chilo di caff
lo ha piantato, coltivato e raccolto in tasca non arrivano
che 2,40 dollari. La vicenda sarebbe una delle tante storie
di economia deviata dalla globalizzazione, se non coinvolgesse
due dei pi noti volti della globalizzazione stessa:
Starbucks, la catena del caff regina in America
e nel mondo, passata alla storia anche perch riesce
a vendere in tutto il mondo una bevanda dal nome di "frappuccino"
facendola passare per una tipica specialit italiana,
e Oxfam, una delle pi vecchie e rispettate associazioni
non governative del mondo, che da Londra ha fatto del suo
marchio un sinonimo di "giusto e buono" riconosciuto
in tutti i paesi.
La
storia: Oxfam accusa Starbucks - che del corretto rapporto
con i coltivatori e della sua politica commerciale etica
ha fatto negli ultimi anni uno dei cavalli di battaglia
della sua strategia di marketing - di aver bloccato, nascondendosi
dietro alla National coffee association, di cui
uno dei pi potenti membri, il tentativo dell'Etiopia
di far registrare i nomi di tre delle sue pi pregiate
variet di caff - Sidamo, Harar e Yirgacheffe
- presso l'ufficio americano dei brevetti, l'Uspto.
Addis
Abeba ha presentato la domanda pi di un anno fa
ma la richiesta bloccata dall'opposizione della
Nca, che vuole che l'utilizzo dei nomi, e dei chicchi, resti
libero da ogni copyright. Fra carte bollate e avvocati,
tutto fermo da mesi e la battaglia legale non sembra
destinata a finire presto, con grande delusione dei coltivatori
etiopi. Se la registrazione fosse approvata, chiunque utilizzasse
chicchi di queste piante dovrebbe, oltre a garantire la
loro origine, pagare un diritto di sfruttamento del marchio
al governo di Addis Abeba: una mossa che porterebbe nelle
casse del paese - uno dei pi poveri del mondo, con
un Pil pro-capite di 160 dollari l'anno e un'aspettativa
di vita media di 47 anni - 88 milioni di dollari l'anno,
un incremento sostanziale rispetto ai 156 milioni (dati
2002) che vengono ricavati dall'esportazione del caff.
Starbucks nega decisamente di essere il regista dell'impasse:
"Non ci siamo mai opposti alla registrazione del governo
etiope, n abbiamo preteso di avere la propriet
di nessuno dei nomi regionali che usiamo per descrivere
l'origine dei nostri caff", spiega la societ
in un comunicato in cui si sottolinea anche come il gruppo
abbia incrementato in quattro anni gli acquisti dall'Etiopia
del 400%, con beneficio dei coltivatori a cui stato
pagato un prezzo di poco meno di 3 dollari al chilo, il
23% in pi del prezzo di listino medio per quelle
stesse qualit di caff. "Il nostro approccio,
fatto di investimenti in progetti di utilit sociale
e di microprestiti alle popolazioni delle regioni di coltivazione
sono stato riconosciuti per la loro leadership nell'industria
del caff", conclude la nota.
Ma
le spiegazioni non sono bastate a Oxfam: sentitisi traditi
da un vecchio alleato - Oxfam e Starbucks hanno collaborato
per il 2004 in progetti di sviluppo rivolti proprio ai contadini
etiopi - i responsabili dell'ong hanno portato a parlare
con i giornalisti nel giorno del lancio della loro campagna
Tadesse Maskela, capo di una cooperativa di coltivatori
di caff etiopici. La donna ha dato voce alla rabbia
di 15 milioni di contadini del suo paese che sui ricavati
della vendita dei chicchi neri basano la loro sopravvivenza.
"Starbucks vende i caff Sidamo e Harar a 26,29
dollari alla libbra (450 grammi) proprio a causa della particolare
qualit dei chicchi - ha detto la donna - ma i contadini
in Etiopia guadagnano fra i 30 e i 59 centesimi per la stessa
quantit".
Un
grido di disperazione che da solo non creerebbe molti preoccupazioni
a Starbucks, ma che sposato alla potenza mediatica di Oxfam
- gi ieri la storia era su tutti i principali giornali
europei - di danni potrebbe invece crearne parecchi, anche
a un gigante globale come Starbucks.
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